
Hannah Arendt, nel celebre libro La banalità del male, descrive così il processo al criminale nazista
Adolf Eichmann, celebrato a Gerusalemme nel 1961: “Questa aula è certo una sede indovinata per
il processo spettacolare che David Ben Gurion, primo ministro d'Israele, già prevedeva quando
decise di far rapire Eichmann in Argentina e di farlo portare a Gerusalemme perché il Tribunale
distrettuale lo giudicasse per la parte avuta nella 'soluzione del problema ebraico’ (…) La giustizia
vuole che l'imputato sia processato, difeso e giudicato, e che tutte le altre questioni, anche se più
importanti (…) siano lasciate da parte. (…) Qui si devono giudicare le sue azioni, non le sofferenze
degli ebrei, non il popolo tedesco o l'umanità, e neppure l'antisemitismo e il razzismo.”
Arendt sottolineava un punto decisivo: il tribunale doveva giudicare un uomo, Eichmann, e non
l’intera storia dell’Olocausto. Ma come è possibile, davanti a un crimine così grande, isolare
l’individuo dal contesto e dal dolore collettivo? Quel processo, che si svolse tra il 1961 e il 1962,
mostrò al mondo non tanto un “mostro”, ma un uomo mediocre, un burocrate, che eseguiva ordini
senza interrogarsi. Fu qui che Arendt coniò l’espressione “banalità del male”: il male può nascere
dall’assenza di pensiero, dall’automatismo con cui individui comuni accettano di partecipare a
crimini indicibili in violazione alla morale.
Eppure, se guardiamo al presente, la lezione sembra non essere stata appresa. Oggi assistiamo a
nuove tragedie che si intrecciano con queste pagine di una storia che è passata da soli 80
anni.Israele, nato come rifugio dopo l’Olocausto, oggi si trova paradossalmente accusato delle
stesse pratiche che la comunità internazionale aveva giurato di condannare per sempre. In Palestina
è in atto un autentico genocidio, dall’inizio delle ostilità sono morti oltre quarantamila morti ma la
sensazione che si stesse andando si è avuto quasi subito: il 29 dicembre 2023, il Sudafrica ha
presentato una denuncia contro Israele per “genocidio” a Gaza alla Corte internazionale di giustizia
(CIG), il tribunale delle Nazioni Unite incaricato di risolvere le controversie tra gli Stati. Da quel
momento le accuse di crimini di guerra e di genocidio si moltiplicano, ma ancora una volta il Diritto
Internazionale sembra inseguire i fatti, incapace di fermare la spirale della violenza. Per molti si
poteva fermare il massacro, perchè c’era, questa volta la legge contro il crimine di genocidio.
Il 9 dicembre 1948 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite , dopo la mancata colpevolezza dello
Stato tedesco ai danni del popolo ebraico nel processo di Norimberga, paveva approvato la
Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, con l’obiettivo di dare
all’umanità uno strumento giuridico e morale per dire: “Mai più”. Eppure, da allora, il “mai più” si
è ripetuto troppe volte. Dal genocidio in Cambogia tra il 1975 e il 1979, in cui il regime di Pol Pot
sterminò circa due milioni di persone, all’operazione Anfal contro i curdi tra il 1986 e il 1989, fino
al massacro del Rwanda nel 1994, dove in cento giorni furono uccisi circa 800mila tutsi e hutu
moderati. Più di recente, il conflitto in Darfur, iniziato nel 2003 e formalmente chiuso solo nel
2020, ha provocato oltre 300mila vittime. E questo senza citare i Balcani degli anni Novanta, o i
conflitti ancora in corso.
Il processo Eichmann avrebbe dovuto insegnare al mondo che il male non nasce solo dai dittatori,
ma dalla passività di chi obbedisce senza pensare. A distanza di oltre sessant’anni, sembriamo non
aver imparato nulla. I processi della storia avrebbero dovuto formare una coscienza collettiva, ma la
realtà è che, mentre celebriamo la memoria, continuiamo a tollerare la ripetizione delle stesse
atrocità. La vera domanda, oggi, è fino a quando la giustizia resterà confinata nelle aule dei
tribunali, invece di diventare una questione di responsabilità politica e morale condivisa da tutti?
Se c’è una cosa che il processo Eichmann ha insegnato è che la condivisione in diretta sulle
televisioni e alle radio ha smosso le coscienze, ha aperto gli occhi di tutti sugli orrori dei campi, per
Gaza non c’è ancora nessun processo, ma forse i social media possono risvegliare le coscienze di
chi per troppo tempo ha scelto di non occuparsene.